Alla natura erano bastate poche settimane di lockdown per rifiorire di nuova bellezza: laghi, fiumi e aree verdi, senza l’attività inquinante dell’uomo, avevamo mostrato spettacoli che avevamo quasi dimenticato. Purtroppo, però, non c’è nulla di più effimero della bellezza soprattutto quanto, di mezzo, c’è la miopia dell’uomo: con la fine della fase 1 e il riavvio delle attività produttive, i fiumi, i laghi e i mari sono tornati ad essere colpiti dagli scarichi industriali. Cosa finisce nelle acque e quali sono gli impatti che questi sversamenti hanno sull’ambiente?
L’Unione Europea ha catalogato ben 45 sostanze prioritarie che rappresentano un “rischio significativo per l’ambiente acquatico o proveniente dall’ambiente acquatico” e che debbono essere monitorati dagli Stati membri. Nelle acque italiane, tramite i processi produttivi e gli impianti di depurazione delle aree urbane, vengono immesse sostanze organiche, fitofarmaci, farmaci a uso umano e veterinario, pesticidi di nuova generazione, additivi plastici industriali, prodotti per la cura personale, ritardanti di fiamma e microplastiche.
Secondo i dati contenuti in “H₂O – la chimica che inquina”, dossier elaborato dagli esperti di Legambiente, il 60% circa dei fiumi e dei laghi italiani non gode buona salute. Dai dati contenuti nel registro E-PRTR (European Pollutant Release and Transfer Register), l’associazione ambientalista ha stimato che, nel decennio trascorso dal 2007 al 2017, gli impianti industriali, secondo le dichiarazioni fornite dalle stesse aziende, hanno rilasciato nei bacini idrici ben 5.622 tonnellate di sostanze chimiche.
Nel dossier vengono riportati alcuni casi di inquinamento acquifero tuttora irrisolti dopo decenni: da Porto Marghera, primo sito nazionale da bonificare individuato nel 1998, alla zona industriale di Portoscuso (CI) passando per le zona industriali di Porto Torres, Milazzo, Gela, Augusta Priolo e Melilli, purtroppo non mancano i casi di gravi disastri ecologici che non sono stati integralmente bonificati.
Legambiente non si limita ad indicare gli scempi che il patrimonio ambientale italiano ha subito, ma ha lanciato alcune proposte al Governo: innanzitutto le microplastiche devono rientrare tra i criteri di valutazione del buono stato delle acque interne, va implementata l’innovazione tecnologica e in agricoltura vanno ridotte drasticamente le sostanze di sintesi pericolose.
“La riapertura delle attività produttive – commenta Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente – ci ha restituito in diverse situazioni anche la riattivazione di scarichi inquinanti nelle acque. Un fenomeno che ha un impatto notevole su corpi idrici in molti casi già compromessi da decenni di inquinamento e oggi minacciati anche dalla presenza dei nuovi contaminanti ‘emergenti’, un rischio per la salute, oltre che per l’ambiente. Di certo non può essere il lockdown la misura per restituirci acque limpide, ma ora che abbiamo tutti visto come sia possibile ritornare ad avere fiumi e laghi puliti, occorre puntare sulle giuste politiche e misure a livello nazionale fin da questa fase di ripartenza. Servono un sistema di controllo e monitoraggio sempre più accurato e uniforme su tutto il territorio nazionale e un’azione di denuncia degli scarichi illegali. Per questo abbiamo deciso di iniziare a raccogliere le segnalazioni sugli scarichi inquinanti da parte delle persone che continueranno ad essere sentinelle sul territorio. Al contempo, occorre intervenire sull’adeguamento e l’ampliamento dei sistemi di depurazione a servizio delle attività industriali e promuovere investimenti e interventi di innovazione tecnologica e ammodernamento degli stabilimenti. Le storie che abbiamo raccolto in questo dossier ben ci raccontano le pratiche legali e illegali che tutt’oggi continuano ad avvelenare acque, persone e territori. Condotte che non sono più tollerabili, specie in settori che dovrebbero essere protagonisti di una nuova fase di transizione ecologica”.